La privacy rischia di diventare un lusso? Siamo di fronte ad uno snodo cruciale riguardo l’uso delle nuove tecnologie e la protezione dei dati personali? Chi può permettersi di pagare ottiene una maggiore protezione della privacy mentre chi non può, cede i propri dati in cambio dell’accesso? È davvero questa la situazione? E quanta gente che usa web e social ne è consapevole? Domande sempre più attuali e a cui è sempre più importante dare una risposta. La situazione, decisamente in divenire, non è di facile risoluzione, come traspare dalla Relazione sull’attività svolta nel 2024 presentata in questo mese di luglio dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali. Un tempo la privacy era un diritto. Oggi, rischia di trasformarsi in un privilegio per pochi. In un’epoca in cui ogni clic, ogni conversazione, ogni spostamento può essere tracciato, proteggere la propria riservatezza richiede denaro, competenze e consapevolezza che non tutti hanno.

Le nuove tecnologie emergenti, l’intelligenza artificiale generativa, i modelli “pay or ok” e l’addestramento dei sistemi di IA tramite web scraping, hanno fatto risuonare inevitabilmente un campanello d’allarme. La relazione affronta le grandi questioni legate alla tutela dei diritti fondamentali delle persone nel mondo digitale: in particolare, le implicazioni della tecnologia; l’Intelligenza Artificiale generativa; l’economia fondata sui dati; le grandi piattaforme e la tutela dei minori; i sistemi di age verification; i big data; la sicurezza dei sistemi e la protezione dello spazio cibernetico; la monetizzazione dei dati personali; i fenomeni del revenge porn e del cyberbullismo.

L’obiettivo deve essere quello di armonizzare le tecnologie emergenti con i diritti e le libertà della persona, ma anche promuovere una più efficace azione di controllo sull’applicazione della normativa. Sono diversi gli aspetti da normare e non è un caso che l’Autorità ha concluso l’istruttoria nei confronti di ChatGPT ordinando a OpenAI, la società che gestisce il chatbot, la realizzazione di una campagna informativa e il pagamento di una sanzione di 15 milioni di euro.

In tema di privacy è finita nel mirino, questo un nuovo approccio che si sta diffondendo tra le grandi piattaforme nel panorama digitale europeo, ovvero il cosiddetto “Pay or OK”. Agli utenti viene offerta una scelta solo apparente: o si accetta il tracciamento per fini pubblicitari (OK), oppure si paga un abbonamento per preservare la propria privacy che rischia di diventare praticamente un lusso, più che un diritto. In pratica, l’utente è messo di fronte a un bivio: o consente la raccolta dei propri dati per fini pubblicitari, o paga per accedere a una versione del servizio “senza pubblicità” (e senza tracciamento). Un altro fronte è quello relativo alle aziende che sviluppano AI utilizzando questi dati per addestrare i loro modelli, anche se spesso non esiste un consenso esplicito da parte dei titolari dei contenuti. Post sui social, articoli, recensioni, immagini: tutto può essere raccolto (web scraping) e utilizzato per "allenare" i modelli generativi.

Le regole e il controllo ci sarebbero ma, seppur la legge non ammetta ignoranza, sono davvero pochi gli utenti che sono a conoscenza di quanto accade ai loro dati, o che siano in grado o che abbiano la voglia di leggere le policy.  Serve un approccio che metta al centro i diritti delle persone, la trasparenza e il controllo sui dati. Sarebbe il momento di democratizzare la protezione dei dati, rendendola accessibile, comprensibile e realmente esercitabile da tutti. La privacy non può essere un’opzione a pagamento, ma deve restare un diritto inalienabile.

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